Le recenti proteste di massa in Israele contro riforme giudiziarie controverse e antidemocratiche hanno sollevato preoccupazioni sul potenziale di scontri civili interni che minacciano la stabilità fondamentale dello “Stato ebraico”. Dal Corrispondente per la Palestina di The Cradle, 28 febbraio 2023 Mentre decine di migliaia di israeliani si sono radunati per protestare contro il piano di riforma giudiziaria del governo, il 22 febbraio l’esercito israeliano ha condotto un’importante operazione di sicurezza a Nablus, che ha causato la morte di 11 civili e il ferimento di oltre 100 altri. Le manifestazioni in corso contro il controverso progetto di legge stanno diventando sempre più violente, con slogan rabbiosi e azioni di protesta che hanno portato alla recente uccisione di un manifestante da parte della polizia israeliana nella città di Beersheba, nel sud della Palestina occupata. Un momento saliente delle proteste si è verificato la scorsa settimana – durante il primo voto sul progetto di riforma giudiziaria – quando i manifestanti sono riusciti a prendere d’assalto l’edificio del Parlamento della Knesset prima di essere allontanati dalle forze di sicurezza. Minare l’ “unica democrazia” della regione Il piano di riforma giudiziaria è una delle iniziative più significative del sesto governo del Primo Ministro Benjamin Netanyahu. Mira a limitare i poteri dei giudici, che attualmente superano quelli dei deputati della Knesset, e a consentire un intervento eccezionale dei membri della Knesset nella nomina dei giudici. Gli oppositori di Netanyahu sostengono che i piani di riforma guidati dal ministro della Giustizia Yariv Levin sono un tentativo sfacciato di “politicizzare e minare il sistema giudiziario”, al fine di proteggere il primo ministro dalle accuse di “corruzione e violazione della fiducia” che da tempo gli vengono rivolte. Secondo il presidente della Corte Suprema Esther Hayut, le riforme proposte: “Privare la corte della possibilità di annullare le leggi che violano in modo sproporzionato i diritti umani, tra cui il diritto alla vita, alla proprietà, alla libertà di movimento, così come il diritto fondamentale della dignità umana e i suoi derivati – il diritto all’uguaglianza, alla libertà di parola e altro ancora”. L’ex presidente della Corte Suprema Aharon Barak ha espresso preoccupazioni simili, definendo il progetto di legge “l’inizio della fine del Terzo Tempio” – un’espressione apocalittica e una paura che denota l’inizio della fine di Israele. Nel suo libro “Terzo Tempio”, il giornalista e scrittore israeliano Ari Shavit analizza come, nell’ottavo decennio dello Stato, gli israeliani siano diventati i loro stessi nemici: “Le sfide della sicurezza si possono affrontare… ma la disintegrazione dell’identità non può essere superata”. L’imminente “guerra civile” di Israele Nei corridoi del potere israeliano si parla sempre più spesso di “tradimento”, parallelamente all’appello del ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir affinché la polizia si occupi con “maggiore fermezza” dei manifestanti interni. Dopo l’avvertimento del presidente israeliano Isaac Herzog, secondo cui il piano di Netanyahu potrebbe spingere il Paese “sull’orlo del collasso costituzionale e sociale”, il termine “guerra civile” viene usato abitualmente dalla stampa ebraica, con l’analista di Haaretz Anshel Pfeffer che sostiene che “la guerra civile non è più impensabile”. “Negli ultimi giorni, mi sono trovato in conversazioni che non avrei mai immaginato di avere… Ma l’argomento è mortalmente serio: i vari modi in cui una guerra civile potrebbe scoppiare all’improvviso, e chi vincerebbe”, riflette Pfeffer, chiedendosi minacciosamente “le forze dell’ordine, le agenzie di sicurezza e i militari di Israele si schiereranno?”. Ismail Mohammed, studioso di questioni israeliane, spiega a The Cradle che l’idea di una guerra civile in Israele non è più solo una chimera sperata dagli avversari dello Stato di occupazione. Yedidia Stern, capo dell’Istituto per la politica del popolo ebraico fondato dall’Agenzia ebraica, ha affermato che Israele è più vicino alla guerra civile che in qualsiasi altro momento dall’assassinio di Yitzhak Rabin nel 1995 e dal ritiro da Gaza nel 2005. In entrambi i casi Israele è stato sull’orlo di una guerra civile. La battaglia per la riforma giudiziaria in Israele non è un semplice conflitto, ma riflette piuttosto questioni più profonde che toccano l’identità dello Stato e la sua composizione sociale. L’obiettivo di alcuni gruppi politici, come la coalizione di Ben Gvir e del ministro delle Finanze di destra Bezalel Smotrich, è quello di trasformare Israele da uno Stato laico e liberale a uno Stato basato sulla legge religiosa: regolare le osservanze religiose e la condotta quotidiana degli ebrei – o, nella terminologia ebraica, una forma di “Halakha”. Ciò è evidente anche nella dichiarazione del legislatore haredi ashkenazita Yitzhak Pindrus che, nel 74° anniversario della Nakba, ha espresso il desiderio di “far saltare in aria” l’edificio della Corte Suprema, che regola le leggi civili secolari contrarie agli insegnamenti religiosi. La polarizzazione non è solo tra ebrei laici e religiosi. Anche la vecchia divisione tra ebrei orientali e occidentali sta tornando a galla. Ben Gvir, ad esempio, ha ripetutamente chiesto di ridurre il potere degli “ashkenaziti” sullo Stato, chiedendo l’inclusione degli ebrei mizrahi “sefarditi” nelle istituzioni israeliane. Una recente dichiarazione di Zvika Vogel, MK di Otzma Yehudit, apparsa sul sito web di Hebrew Kan 11, riflette questo significativo passaggio da semplici differenze politiche a uno scontro esistenziale tra due Israele diversi. Vogel ha chiesto l’arresto dei politici dell’opposizione Yair Lapid, Benny Gantz, Yair Golan e Moshe Ya’alon per aver fomentato la guerra civile, descrivendoli come “le persone più pericolose in questo momento in Israele”. Come spiega a The Cradle l’analista di questioni israeliane Anwar Saleh: “La questione è molto più seria di una richiesta di uguaglianza e cittadinanza. La coalizione estremista di Netanyahu ha convinzioni che riguardano le fondamenta stesse dello Stato, come il ritorno alla domanda elementare “chi è un ebreo?””. Questa demografia politica ritiene che gli ebrei laici – che costituiscono più del 44% degli israeliani – siano “falsi ebrei” e che l’attuale governo, controllato dalla destra religiosa, che costituisce il 20% della popolazione, rappresenti il vero spirito dell’ebraismo”, continua Saleh. “Questo dibattito che si svolge oggi – 74 anni dopo la creazione dello Stato di Israele – riguarda la base stessa su cui l’Agenzia ebraica ha lanciato il suo programma di immigrazione per attirare gli ebrei in Palestina”. Disinvestimento nell’incertezza È degno di nota il fatto che, dall’inizio delle proteste, oltre 50 società di investimento hanno spostato le loro attività da Israele ad altri Paesi. Questa fuga di massa comprende 37 aziende tecnologiche. Questo sviluppo ha spinto il ministro israeliano della Scienza e della Tecnologia Ofir Okunis a tenere un incontro privato con gli ambasciatori stranieri a Tel Aviv, durante il quale li ha esortati a prendere posizione sulla questione. In risposta, le aziende tecnologiche hanno rilasciato una dichiarazione in cui si rifiutano di rimpatriare in Israele 2,2 miliardi di dollari di guadagni provenienti dalle loro operazioni all’estero. I proprietari di queste aziende hanno anche espresso la preoccupazione di un calo del rating del Paese a causa della nomina di giudici da parte dei politici, che considerano un ambiente sfavorevole per gli affari. Ciò ha spinto diversi investitori a trasferire all’estero i fondi depositati in Israele. Il bastone di Mosè Anche se oggi Netanyahu brandisse il potente “bastone di Mosè”, non sarebbe in grado di sconfiggere i potenti scismi interni che dilaniano Israele. Tuttavia, l’unico strumento a disposizione del primo ministro è quello di dirottare l’attenzione di Israele altrove, anche se questo finirà per riaccendere il conflitto interno. In sostanza, ora o più tardi, il Paese dovrà affrontare il suo conflitto civile. Nonostante le numerose differenze, la società israeliana è unita nella percezione – alimentata dai politici e dai media – di essere sottoposta a una minaccia esistenziale dall’esterno. Gli osservatori ipotizzano che l’unica speranza di Netanyahu di sedare il conflitto interno sia quella di creare una minaccia esterna. Secondo l’analista politico Ayman al-Rifati, la Cisgiordania occupata è considerata l’opzione d’azione meno sensibile dal punto di vista politico e più flessibile. Egli spiega a The Cradle che, a differenza del passato, oggi Gaza è il teatro in cui Israele cerca di mantenere la calma per evitare un’escalation militare durante la prossima stagione del Ramadan. La crescente sofisticazione dei missili negli arsenali della resistenza di Gaza rappresenta inoltre un rischio troppo elevato, con conseguenze sconosciute e incontrollabili che Israele potrebbe dover sopportare. La Cisgiordania, invece, è relativamente poco armata, con armi leggere concentrate in un numero molto minore di mani. E nonostante il flusso costante di minacce da parte di Tel Aviv, non ci sono indicazioni che Israele possa iniziare una guerra con l’Iran o con Hezbollah, anche se rimane attiva l’opzione di effettuare operazioni di sicurezza mirate che suscitino una reazione da parte di questi avversari. Il recente attacco dei coloni ebrei alla cittadina di Huwara, nella città cisgiordana di Nablus, è un sottoprodotto degli sforzi di Netanyahu per mobilitare i sentimenti israeliani verso il lancio di un confronto globale con i palestinesi della Cisgiordania. Uno degli obiettivi principali di questo scontro è quello di distogliere l’attenzione dal collasso interno di Israele. Commenti, sintesi e traduzione a cura di Armando Savini https://t.me/chaosmega
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